Don Giuseppe Dossetti

Nato il 6/9/1942 a Cavriago, in provincia di Reggio Emilia, è ordinato sacerdote il 2/10/1971. Prete operaio per tutti gli anni ’70, nel 1982 viene chiamato dal vescovo mons. Gilberto Baroni a guidare il nascente CeIS, dopo che nei primi mesi di attività era stato affidato a Franco Marchi. Dal 1983 diventa anche collaboratore di don Angelo Cocconcelli presso la parrocchia di San Pellegrino in città. Parroco di San Pellegrino dal 1996, dal 2012 guida l’Unità Pastorale “Santa Maria Maddalena” che comprende la parrocchia del “Buon Pastore” oltre la parrocchia di San Pellegrino.

Ha scelto di festeggiare il 70° compleanno, giovedì 6 settembre, nella sua “nuova” parrocchia del Buon Pastore di Reggio, che da quest’estate è in unità pastorale con San Pellegrino. Semplici le modalità: una Messa ed un rinfresco, in cui per soffiare sulle simboliche candeline della torta si è fatto aiutare da una bambina. Don Giuseppe Dossetti è sereno, nonostante il carico sulle sue spalle si sia appesantito. “Ringrazio della fiducia il Vescovo Adriano. Mi sono fidato di nostro Signore anche in altri momenti di passaggio, come quando nel 1982 il vescovo Baroni mi chiamò al CeIS o quando Gibertini, nel 1996, mi affidò la parrocchia di San Pellegrino. Io temevo di non farcela, poi ho ricevuto le grazie necessarie e non ho motivo di credere che non arriveranno anche stavolta per il Buon Pastore”, spiega.
Il rotondo anniversario è l’occasione per conoscere meglio questo sacerdote “poliedrico” con un passato da prete operaio, fine biblista e al tempo mente strategica nella prevenzione e nel contrasto delle dipendenze.
Don Giuseppe, com’è nata la sua vocazione al sacerdozio?
Con don Dino Torreggiani. Quando mi preparavo alla Prima Comunione, a 6 anni, i miei genitori volevano che io mi confessassi da un prete santo e allora mi portarono da don Dino. Don Dino mi confessò e poi mi disse: “Senti, facciamo un patto io e te, ma non dire niente a nessuno, neanche alla mamma: quando sarai grande, farai il prete”. E io risposi di sì, perché mi sembrava una professione rispettabile, non avevo niente in contrario…
Tutto così facile?
Per alcuni anni persi la cosa un po’ di vista… finché incontrai don Gianfranco Magnani, che faceva il curato in Santo Stefano e fu poi direttore degli Artigianelli, e la vocazione ritornò fuori: a 14 anni ero sicuro che il Signore mi chiamava per quella strada.
Ci sono stati altri testimoni che hanno inciso su quella scelta?
Ha avuto molta importanza la figura di mia madre, la sua insistenza sul rapporto personale con Gesù. Poi certamente mio zio (don Giuseppe Dossetti senior, ndr), a cui devo senz’altro l’amore per la Terra Santa. Sono molto grato anche a don Alberto Altana, perché quando iniziai teologia a Roma andai ad abitare da lui alla parrocchia di San Gregorio Magno alla Magliana: il suo amore per i poveri mi è stato di esempio. Così come mi hanno aiutato a riflettere due estati trascorse al Cottolengo, negli anni 1962-63.
Dovesse indicare tre santi di cui è particolarmente devoto?
A me i santi piacciono tutti. Comunque direi San Giuseppe, che prego tutti i giorni anche per i debiti della parrocchia, Santa Maria Maddalena e Santa Teresa di Gesù Bambino.
I suoi studi?
Mi sono laureato in lettere a Bologna nel 1964 e nello stesso anno sono andato a studiare teologia dai benedettini, all’Istituto Sant’Anselmo di Roma, concludendo nel 1969.
È diventato prete nel 1971. Nel frattempo?
A Roma avevo vissuto il periodo del Vietnam ed il grande entusiasmo di rinnovamento del Sessantotto. Eravamo giovani e ingenui: molti volevano cambiare il mondo, io personalmente mi limitavo a voler cambiare la Chiesa… La mia via personale fu quella di andare a fare l’operaio in fabbrica. Scelsi di rientrare nella nostra diocesi da laico, per conoscere una realtà dalla quale mi ero allontanato. E insieme ad un monaco di mio zio (della “Piccola Famiglia dell’Annunziata”, ndr) mettemmo su un appartamento nel quartiere Bainsizza, tra le case popolari: andavamo a lavorare, facevamo vita di preghiera e davamo un po’ di aiuto alla parrocchia dello Spirito Santo, che era all’inizio.
Per quanto tempo ha continuato a fare l’operaio?
Dopo l’ordinazione presbiterale passai a metà giornata. Ho vissuto tutti gli anni Settanta in fabbrica; non mi era richiesto di svolgere attività sociale – i colleghi operai ne sapevano molto più di me – però quella presenza che mi ha permesso di stabilire dei rapporti molto forti e fraterni. D’altra parte la mia richiesta al Signore, quando venni ordinato sacerdote, era stata più o meno: “Fammi fare il prete per chi sta mezzo dentro e mezzo fuori”.
Ricordo che, quando arrivai a stancarmi del doppio lavoro, dissi al Vescovo Gilberto che ero pronto a lasciare la fabbrica.

E Baroni?
Fu straordinario: contro le mie aspettative, mi invitò a continuare a fare l’operaio. Così proseguii fino a quel 28 agosto 1982, quando lo stesso vescovo mi chiese di sostituire Franco Marchi, ammalatosi, nella responsabilità del nascente Centro di Solidarietà. Mi disse che ero l’ultimo della lista. Probabilmente Baroni mi chiamò su indicazione del commendator Dino Bertucci, che mi aveva conosciuto durante il terremoto del 1980 in Irpinia; a San Mango sul Calore avevo dimostrato che non ero solo un “intellettuale tutto Bibbia” e che qualche dote organizzativa ce l’avevo…
Come fu l’approccio con il CeIS?
All’inizio fu… di rigetto: avevo tenuto in casa uno dei primi tossicodipendenti di Reggio, soffrendo e sbagliando come tanti genitori e convincendomi della irrecuperabilità del drogato. Per di più dovetti cominciare subito: l’8 settembre 1982 ero a conoscere don Picchi e il 13 settembre iniziavo la preparazione a Roma. Ero impaurito, arrabbiato, fu un mese durissimo… però il 15 ottobre ebbi una grazia, in comunità, durante il corso, e capii che potevo farcela, perché alla fine non era una questione di specialismi, ma rimaneva fondamentale la dimensione educativa.
E la Provvidenza mi ha assistito, perché pur partendo senza soldi, il CeIS non ha mai fatto un debito. Da almeno una quindicina d’anni la dipendenza è entrata nella normalità, perciò l’alleanza con la famiglia è sempre più decisiva.

Con San Pellegrino come andarono le cose?
Don Angelo, il parroco, mi aveva accolto con molta amicizia in San Pellegrino fino dal 1983. Quando compì 83 anni il vescovo Paolo lo convinse a dare le dimissioni; ma il successore, presa visione della parrocchia, si ritirò. Io ero già pronto a cambiare aria, quando il 19 giugno 1996, alle 11, mi telefonò monsignor Gibertini: “Don Angelo, dimissionario, rimarrà in parrocchia; voglio dargli un aiuto con cui lui vada d’accordo, per cui nomino te”. “Ma ho il CeIS”, obiettai. E il vescovo: “Ti farà bene e farai bene”. “Posso pensarci sopra un attimo?”, domandai. “Sì, pensaci sopra e vieni oggi pomeriggio alle 5 a darmi la risposta”!
La cosa ha funzionato. Don Angelo è rimasto in parrocchia fino alla morte, avvenuta il 29 novembre 1999, sempre con estrema lealtà nei miei confronti.

Indichi per flash tre “nodi” per la Chiesa d’oggi…
Guerra: al di là del giudizio morale sui conflitti, la Chiesa è chiamata a ripensare il suo approccio con l’autorità civile.
Divorziati risposati: si tratta di passare da un’impostazione giuridica della questione a un’interpretazione più di carattere spirituale, profetica. Ministeri: è una questione di prassi, più che di teoria, di attuazione delle intuizioni del Vaticano II. Per esempio, se dovessi esser interpellato su “nuove” forme d’ingegneria pastorale, al primo posto dell’agenda metterei il diaconato femminile.

Edoardo Tincani